Per caso, in uno scambio di messaggi tra colleghi, uno di noi ha scritto extra-homeless.
Abbiamo ironizzato sull’assonanza con il più famoso extra omnes, l’ordine che il Maestro delle cerimonie pontificie dà a tutti coloro che non siano i Cardinali elettori, prima di chiudere le porte della Cappella Sistina e dare inizio al Conclave.
Ma quell’espressione è rimasta in mente, con più di un significato (al tempo del Covid-19, nel caso vi foste distratti un attimo credendo di poter parlare d’altro).
Extra homeless è stato detto all’inizio. Nei primi giorni del lockdown, mentre tutti si chiudevano in casa, le persone senza dimora sono rimaste fuori. Non tutte, a dire il vero: quelli che erano già accolti nelle strutture e nei dormitori sono potuti rimanere; gli altri, fuori. A Roma parliamo almeno di oltre 15mila persone (dati Osservatorio Cittadino sulle Marginalità). Mettile un po’ in fila, come disse qualcuno… Non è stato facile per chi fa questo mestiere non poter accogliere. Se nei primi giorni si pensava con ottimismo che la clausura sarebbe durata molto meno di quanto poi è successo e che le autorità avrebbero preso in mano la situazione, creando nuove strutture che permettessero di rispettare l’isolamento sociale, ci è voluto poco per capire che quella sarebbe stata una condizione definitiva. Chi era fuori sarebbe rimasto fuori, senza – o quasi – servizi essenziali, senza bagni pubblici, dove lavarsi e fare i propri bisogni con dignità; senza bar o ristoranti, dove recuperare qualcosa da mangiare; senza potersi difendere dal “nemico invisibile”, la ridicola espressione con cui i media hanno definito, nella loro narrativa guerresca, il virus. Extra erano ed extra sono rimasti. Amen.
Extra homeless sarà detto a molti tra qualche giorno. Tante delle strutture che hanno accolto le persone senza dimora in queste settimane di quarantena globale stanno per chiudere, perché erano finanziate con i soldi della famigerata emergenza freddo, altra espressione priva di pudore, usata da chi fa finta di non sapere che ogni anno, alle nostre latitudini, viene l’inverno. Le persone senza dimora verranno buttate fuori. Tanti di loro sono disorientati, come tutti del resto, perché non sanno come sopravvivranno nelle città sbarrate, dove servirà ancora autocertificare il perché ci si trova in giro per strada. Non ci fosse da piangere, si potrebbe ridere delle molte multe che le persone senza dimora, quegli extra-homeless del punto precedente, hanno preso in questi giorni, perché non avere una casa è uno stato di grave disgrazia, non già di grave necessità, quindi non contemplato nel modulo per l’autocertificazione. Aumenteranno queste multe? Qualcuno ritroverà il senso del ridicolo?
Extra homeless lo diremo per i mesi a venire, ma con un altro significato: molti più homeless. Sarebbe noioso ripetere qui quanto socialmente disastrate saranno le grandi città, quando tutto questo sarà finito. Ogni giorno che passa, aumentano i futuri disoccupati, gli inquilini morosi, gli stranieri in miseria, i separati, cui la convivenza forzata ha dato il colpo di grazia. Dove li metteremo questi homeless extra? Avranno il buon gusto di aspettare la prossima emergenza freddo per finire in strada? Altrimenti, bisognerà proprio che qualcuno ripensi le misure di housing, magari con un po’ di lungimiranza.
A proposito di lungimiranza, ci sarebbe un quarto modo di leggere il nostro extra homeless, ma il ragionamento è un po’ articolato. Nell’esortazione apostolica Querida Amazonia, che Papa Francesco ha pubblicato dopo il sinodo dedicato a quella terra nell’ottobre 2019, si legge una critica molto dura all’inurbamento selvaggio, che ha come protagonisti gli indigeni, cacciati dalle loro terre verso le grandi città. Lì diventano vittime della cultura dello scarto – un leitmotiv di questo Pontefice – sfruttati, abusati, trafficati: le grandi città non sono accoglienti, dice il Papa, e chi è povero non ha via di scampo. Bastava anche leggere Dickens per ricordarselo, ma parlando di extra omnes/homeless un papa sembrava più appropriato. Fatto sta che anche qui e oggi la vita delle persone povere nelle grandi città è diventata, ormai, difficilmente sostenibile e, con l’aumento della disoccupazione che ci aspettiamo di vivere, chi si arrabattava non si arrabatterà più, per un bel po’. Per anni si è detto che gli homeless si concentrano nelle grandi città perché quello è il luogo delle opportunità, ma domani è molto probabile che queste opportunità non ci siano più. Potrebbe essere, invece, che qualche opportunità in più emerga – sul medio termine – in provincia, dove il costo della vita è molto inferiore, le reti di solidarietà informali tutto sommato solide, il contesto meno alienante. Impegnare strategie e risorse per offrire alle persone povere alloggi sostenibili (in cui avere la residenza), opportunità di lavoro, servizi di accompagnamento al reinserimento sociale, assistenza sanitaria, occasioni formative nelle migliaia di piccoli comuni, che sono una ricchezza del nostro Paese, potrebbe scongiurare il rischio dello sviluppo di nuovi ghetti nelle periferie già degradate delle nostre grandi città. Ed evitare, anche, il collasso dei servizi sociali.
La deurbanizzazione può essere un vantaggio per la prossima generazione di cittadini: una strategia win-win per decongestionare i trasporti, curare il territorio, ridurre i costi del vivere e, per chi sta ai margini, condurre una vita potenzialmente sostenibile in un contesto più favorevole che ne riduca, anziché estremizzare, la disabilità sociale temporanea. Il mondo deve cambiare, ci dicono tutti, e qualcosa, forse, può anche cambiare per il meglio.
AUTore
Gianni Petiti
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